Per l'invio di EP, demo o full-length contattatemi a questo indirizzo: marco-gattini@hotmail.it

venerdì 29 novembre 2013

Blood Red Throne – Brutalitarian Regime






Year: 2011
Genre: Death Metal
Label: Sevared Records
Sound like: Deicide
Sentence: Good job (7,5)

Affermatisi dal 2001 con l'esordio “Monument of Death”, i Blood Red Throne sono una delle realtà più importanti del death metal made in Europa, in quella Norvegia dove a regnare incontrastato è quasi sempre stato solo il black metal. Il quintetto, capitanato alla grande dal chitarrista Daniel “Dod” Olaisen, nonostante i numerosi cambi di line-up è sempre riuscito nell'intento di creare un buon death metal classico, sempre di chiara ispirazione a quello oltreoceano, pesante e compatto, senza mai cedere alle tentazioni di rinnovamento. “Brutalitarian Regime”, attualmente il penultimo lavoro in studio e forte di una formazione solida in cui spiccano Erlend Caspersen al basso (attualmente negli Spawn of Possession) e Emil Wiksten alla batteria (entrato negli Aeon quest'anno). Si rivela un disco complessivamente buono e piacevole da sentire, penalizzato solo principalmente da una produzione un po' debole e dal fatto di come tutte le tracce fossero forse troppo lineari, rendendo il disco di una compattezza micidiale ma senza far emergere una traccia particolare rispetto alle altre. Da qui mi risulta quasi difficile fare una recensione “track for track” dei vari pezzi, perché alla fin fine mi ritroverei a dire le stesse identiche cose: di certo però tracce come “Games of Humiliation”, “Melena”, la title track e “The Burning” sono ottime canzoni death metal in grado di intrattenere coloro che pretendo di più, come il sottoscritto, in fatto di sonorità estreme. In sintesi, quaranta minuti di puro death metal fatto bene e godibilissimo da ascoltare, che risulta sì classico nella forma ma personale nella sostanza, seppur non esente da qualche magagna.

-Lorenzo Tagliatesta



martedì 26 novembre 2013

Cold cold ground - Lies About Ourselves





Year: 2013
Genre: Industrial Metal/Rock
Label: Osasto-A Records
Sounds Like: Turmion Katilot, Static-X
Sentence: Finnish people rules (8)

E' da tanto che aspetto questo album, sono passati due anni dall'uscita del singolo che ha preannunciato questo album e l'attesa è stata ripagata molto bene! Si sa che i finlandesi sono dei grandi musicisti, e anche nel campo di industrial metal fanno letteralmente vergognare altri del genere, con sound (soprattutto delleparti elettroniche) particolari, riconoscibili subito; band capostipiti di questo genere in finlandia sono i Turmion katilot, i Fear of Domination e i meno conosciuti Cold Cold Ground. Parleremo appunto dell'ultimo lavoro di quest'ultimo gruppo, il cui ultimo LP risale al 2010.  Oggi parleremo di "Lies About Ourselves" uscita freschissima per il gruppo che modifica tantissimo il proprio suono rispetto al precedente "This side of Depravity" infatti l'elettronica non fa più solo da accompagnamento in questo disco, ma diventa proprio un pilastro del tutto, il cuore pulsante del suono. Il comparto ritmico è gestito alla grande da un batterista che reputo tra i migliori presenti sulla scena industrial metal, soprattutto per canzoni come "Cocain in My Ass" o "Model Citizen" che mi hanno fatto letteralmente amare queston disco! Le chitarre risultano molto varie, in modo da non sembrare suonate solo per industrial metal, ma in canzoni come "Welcome to Hell" possiamo sentire un sound veramente vario che rende il tutto quasi matematicamente perfetto.

Nel complesso tutto questo lavoro risulta molto ben organizzato e supera di gran lunga le mie aspettative, che si erano dissipate durante la lunga attesa di 3 anni, se siete amanti del genere come me è un album altamente consigliato se invece vi volete avvicinare al genere vi consiglio le mie due tracce preferite di questo disco ovvero "Model Citizen" e "Lies About Ourselves" che mi hanno regalato 8 minuti di puro industrial nella sua forma migliore. Ottimo lavoro, si sa in fondo che difficilmente i finlandesi deludono!

-Andrea Facchinello



venerdì 22 novembre 2013

Peste Noire - Peste Noire






Year: 2013
Genre: Black Metal/Medieval Metal
Label: La Mesnie Herlequin
Sounds Like: Autarcie
Sentence: (8)

Buon quinto studio album per il terzetto di Avignone, ancora una volta uscito per l’etichetta fondata proprio dalla mente del gruppo: il chitarrista e cantante La Sale Femine De Valfunde. È anche grazie a questo che la band può più o meno infischiarsene di seguire gli stilemi del genere black, senza infastidire nessuno, tranne quanti fra gli ascoltatori proprio non digeriscono l’introduzione di elementi folk nel black metal; è proprio così: ascoltare l’album è come fare la conoscenza dei membri del gruppo, il già citato La Sale Femine De Valfunde (voce, chitarra, basso e armonica), Sainte Audrey-Yolande de la Molterge (voce pulita, piano ed Hammond) e Ardraos (batteria e fisarmonica) e girovagare con loro per circa tre quarti d’ora, sufficienti a comprendere come l’apparente caos generato da accostamenti particolari come fisarmonica - black metal generi invece un amalgama tutto sommato niente male. Niente musica elettronica o Ska, come succedeva invece nel precedente “L’ordure à l’état pure”, ma, oltre alla fisarmonica, che compare già sul finire della prima traccia, affascinante manifesto programmatico con il discorso in francese che dona severità ed importanza a “Le retour de la peste” , possiamo ascoltare la gironda, curioso strumento di origine medioevale che nel suono ricorda il violino e nel quale le corde vengono strofinate da un disco messo in moto da una manovella, mentre una seconda melodia viene fuori da una specie di tastiera. “Demonarque” mostra l’animo più black della band, condito da un sano blast beat iniziale e comunque da una batteria violenta e complessa, ma anche qui l’animo folk si fa sentire, con fisarmonica, chitarra classica, flauto, gironda, senza dimenticare la voce pulita di Sainte Audrey - Yolande De la Molterge. Molto bella “La Bêche et l’epée - contre l’usurier, probabilmente la canzone più metal dell’album, e sicuramente una delle migliori, che vede nel finale la ricomparsa del parlato/manifesto. “Niquez vos villes” inizia in modo più “rockeggiante”, per poi appesantirsi con un cantato vagamente “rap” e “deliziarci” con una sorta di corno da caccia distorto, ed infine rendersi ancora più pesante, nella musica e nel cantato, più cupo e growl. Un po’ meno coinvolgente, a mio parere, “Le clebs noir - De Pontigibaud”, mentre si riparte molto bene con l’ultima parte dell’album: “Ode” e le sue parti acustiche e l’inframezzo di gironda, “La blonde”, poco black metal, ma ormai ci siamo abituati allo stile dei Peste Noire e possiamo apprezzarla, e la conclusiva “Moins Trente -Degrés Celsius”, triste finale, che ci vede salutare la band per tornarcene a casa, sicuramente arricchiti da questa esperienza e con la mente più aperta.

-Pierluigi Bani


lunedì 18 novembre 2013

A Lot Like Birds - No Place






Year: 2013
Genre: Post-Hardcore/Progressive
Label: Equal Vision Records
Sounds Like: Dance Gavin Dance
Sentence: Magnificent (9,5)

Prima di mettere le mani in maniera seria, su questo "No Place", ho deciso di riascoltarmi tutta la discografia dei A Lot Like Birds, così da comprendere in maniera più evidente le differenze e le evoluzioni dell'attuale sestetto californiano. Gli A Lot Like Birds pubblicarono il loro album di debutto, "Plan B", nel 2009, un disco con molteplici influenze, tra cui pop-punk, post-rock, jazz e già la band in questione ci aveva lasciati a bocca aperta, sapendo mischiare questi generi in maniera ineguagliabile. Appena tre anni dopo, rieccoli con "Conversation Piece", un lavoro completamente diverso dal precedente, dove come novità principale troviamo l'aggiunta di un nuovo vocalist, il cambiamento che li porta ad avere molti più elementi post hardcore e una maturazione complessiva da parte di tutti i componenti. Per non parlare dei testi che sono niente di meno che poesia, pura poesia. Ed eccoci oggi, 2013, pronti a descrivere il loro terzo tassello di una carriera, fino ad ora pressoché perfetta. Tengo a precisare che questo è un disco che non ha canzoni che spiccano l'una sull'altra, ma è il classico concept album che va ascoltato tutto d'un fiato più e più volte. "No Place" raggiunge senza dubbio la parte più sperimentale utilizzata fin'ora, ma nonostante ciò conserva il suo marchio di fabbrica più conosciuto, ovvero gli accumuli di post-rock tramandati da effetti regolati in maniera maniacale da ottenere un suono stratificato che possano esprimere il loro concetto di musica nella maniera più chiara possibile. Ogni crescendo si mette in luce grazie alle forti chitarre riverbanti e la sempre più crescente voce aspra di Cory Lockwood, mentre il bassista Michael Littlefield aggiunge profondità e il il chitarrista Joe Arlington motivi le chitarra in maniera da farla parlare da sola. Per far capire ancora meglio, come non sia un disco da brani che spiccano, possiamo prendere il singolo "Kuroi Ledge", che preso così in solitaria, sì risulta un bel brano, ma non ha nessun senso logico, se invece lo ascoltiamo insieme a tutto il disco vediamo come sia fatto apposta, su misura se vogliamo, per essere posizionato nel contesto del resto dell'album, come se fosse un pezzo di puzzle mancante per completarlo. Le esecuzioni strumentali ambient orientali dei due chitarristi, Michael Franzino e Ben Wiacek aggiungono un senso di omogeneità al tutto. Anche se una volta che l'ascoltatore supera il caos iniziale, il risulta finale è più che soddisfacente e le prime impressioni saranno in frantumi perse in piccole parti, come un muro distrutto da un senso di incapacità, dovuto all'inesperienza per reggere tutto ciò che sta accadendo. Il team vocale di  Cory Lockwood e Kurt Travis, è eseguita ad opera d'arte, come si poteva immagina; falsetto inquietante di Kurt che contrasta nettamente gli affascinanti passaggi "parlati" di Cory, che suscitano all'ascoltatore fiumi in piena di tensione, mentre i tipici vocalist puliti post-hardcore e più aggressivi sono due entità distinte strenuamente, creando perfettamente un intreccio irremovibile e formando una potenza dinamica vocale, che raramente viene eseguita così. Inoltre i testi meritano una menzione d'onore in quanto sono forse, alcuni dei testi più intelligenti, ben scritti e carichi di emozione in tutto il genere post-hardcore; forse solo i The Ocean, riescono a tenergli testa. Il duo Corey e Kurt rappresenta un colosso lirico davvero pazzesco; il loro lavoro lega l'album e ingrana perfettamente con il concept dell'album. "No Place" arriva come sventrata, ma emerge più intricato, complesso e calcolato a differenza di "Conversation Piece". Per cui il sestetto è riuscito ulteriormente ad ampliare il proprio bagaglio musicale, facendo qualcosa che fino ad ora non aveva mai fatto; così da dimostrare un'altra maturazione musicale. Nel contesto del vasto panorama post-hardcore, si aggiungono ufficialmente, con  l'uscita di "Conversation Piece", tra i gruppi più di rilievo, ma con questo "No Place", diventano senza ombra di dubbio, una delle migliori realtà e promesse per questo genere, che creatosi da poco, ci sta regalando pian piano dei veri e propri capolavori. Secondo la copertina dunque, sembra che tutte le cose depresse, malate e buie abbiano trovato un posto da chiamare casa.

-Marco







venerdì 15 novembre 2013

Glass Cloud - Perfect War (EP)






ear: 2013
Genre: Djent
Label: Equal Vision (US) / Basick Records (EU)
Sounds Like: The Tony Danza Tapdance Extravaganza
Sentence: Bleeding a perfect war! (7,5)

Glass Cloud.
Da subito con l'uscita del loro primo disco "The Royal Thousand" sono entrati a far parte della ristretta cerchia di gruppi che mi porterò sempre nel cuore; riff spaccaossa, breakdown distruttivi quando servono e melodie fantastiche. Queste sono le uniche parole per descrivere questo gruppo, la cui caratteristica principale è un riffing malato ad opera di uno dei chitarristi (per questi generi estremi) migliori che la terra abbia mai visto (a parere mio). A distanza di un anno e mezzo i Glass Cloud tornano con un ep, uscito il 22 di ottobre, intitolato "Perfect War Forever".  Da premettere subito è il passaggio di Joshua Travis (chitarrista) da una chitarra a 8 corde ad una a 9, donando così al gruppo intero una cattiveria inedita, anche per tutta la scena djent. Il disco è composto da 5 tracce, che risultano passare anche troppo in fretta, soprattutto per la varietà delle traccce che risultano poco ripetitive, più di tutte "How to survive Suicide" e "Soul is dead" che riescono a marcare nettamente questa originalità con riffing più pesanti e complessi della media delle tracce, e parti in pulito che farebbero rabbrividire qualunque appassionato del genere. Ovviamente potrete facilmente intuire come un disco con suoni simili sia stato accolto a braccia aperte da tutti i "djentlemen" del mondo, ed io non sono escluso da questa lista. Canzoni fantastiche, senza dubbio, il cui unico difetto può essere la linearità seguita come schema in quasi tutte le 5 tracce, però tralasciando questo il disco si regge in piedi da solo, e a testa alta, soprattutto perché una perla come "Soul is dead" ha letteralmente abbattuto ogni altra canzone del genere. Insomma, se vi piace il djent questo è un disco assolutamente da ascoltare e da apprezzare!

-Andrea Facchinello





lunedì 11 novembre 2013

Dayshell - Dayshell






Year: 2013
Genre: Post-Hardcore
Label: Sumerian Records
Sound Like: Of Mice & Men, Covette
Sentence: Good start (7,5)

9 Febbraio 2012, Shayley Bourget lascia gli "Of Mice & Men" e decide con i suoi due amici Raul Martinez (alla batteria) e Jordan Wooley (al basso) di formare un nuovo progetto chiamato "Dayshell". Il trio di Costa Mesa, California, presenta un post-hardcore che se da una parte non si discosta moltissimo dalle ultime uscite, dall'altra ha dalla sua interessanti punti di vista che fanno di questo album di debutto un album direi quasi unico. L'album inizia con "Not Coming In", singolo di punta dei californiani, uno dei pezzi più alti di questa produzione dove a far da padrona è la voce fuori dal comune di Bourget che ricorda per certi aspetti Chino Moreno dei Deftones. Poi arriva "Share With Me", canzone riarrangiata per l'album in maniera ottimale, dove la batteria di Martinez fa il suo dovere più che egregiamente. Di questa canzone è stato fatto un music video e devo dire che è davvero esaltate a mio parere. Un altro punto alto è rappresentato dalla traccia "Hail To Queen" dove oltre alle ottime strofe e ritornello si accompagna uno spettacolare bridge di Shayley, seguito da una batteria e un basso che fanno letteralmente salire la carica e l'adrenalina. Però il punto più alto a mio parere di questa produzione si raggiunge alla traccia 9, "Useless", in cui il clean di Bourget tocca uno dei punti più alti mai raggiunti dal vocalist, e il paragone con i Deftones qui si sente ancora maggiormente, rendendola una canzone perfetta; nulla da invidiare ad una qualsiasi delle canzone degli Of Mice & Men. Non è tutto oro quel che luccica, infatti l'album ha delle stonature e si trovano nelle traccie cosiddette "soft", quali "A Waste Of Space" e "When You Fall Asleep Tonight" che a mio parere rovinano un'esperienza che sarebbe stata eccezionale, perché una traccia più tranquilla ci potrebbe stare, ma due già incominciano a farti storcere il naso. Alla fine della fiera, cosa dire di questo album di debutto? E' assolutamente un album fuori dal comune, dove la voce di Shayley Bourget si comporta in maniera superlativa, comunque siamo lontani da considerarlo un capolavoro, infatti a mio parere manca una certa maturazione e innovazione, nel senso che è ancora troppo ancorato alle uscite precedute da questa, (vedi I See Stars-compagni di etichetta, gli A Day To Remember e gli A Skylit Drive) comunque i punti su cui prendere spunto e ricominciare a lavorare ci sono eccome, vedi lo stile musicale, simil-Deftones come già citato e la voce di Shayley Bourget che rimane a mio parere una delle migliori nel panorama del post hardcore. Come inizio è di buon livello, ma si può osare di più! Con queste premesse chiudo. Alla prossima Dayshell e...chissà se Shayley e gli Of Mice & Men ci ripensano...

-Mattia Zaccheroni


venerdì 8 novembre 2013

Plini - Sweet Nothings (EP)






Year: 2013
Genre: Ambient/Instrumental Rock/Fusion
Label: Independent
Sounds Like: /
Sentence: This is perfection (8,5)

Avete presente quando cominciate ad ascoltare una canzone e non riuscite a smettere di premere replay appena questa finisce? Stupendo, vuol dire che la musica che state ascoltando è davvero di vostro gradimento e credetemi se vi dico che il disco di cui parlerò oggi vi causerà quest'effetto sin dalla prima canzone. "Sweet Nothings", questo è il titolo dell'ep in questione, ad opera di un ragazzo australiano che in sole 4 tracce è riuscito a racchiudere migliaia di emozioni.  Con "Sweet Nothings" il giovane  ha oltrepassato i limiti dell'atmosfera e della normalità, offrendo una musica strumentale degna dei migliori compositori al mondo, che intrattiene per tutti i (pochi purtroppo) venti minuti. A mio avviso se un disco strumentale, badate bene, strumentale, è capace di intrattenere l'ascoltatore per tutta la sua durata come questo vuol dire che si toccano i limiti della perfezione dato che il tutto risulta quindi vario e mai ripetitivo. Prendete come esempio la seconda traccia "Tarred & Feathered" in questi soli tre minuti è racchiusa una sorta di magia che tra riffing di chitarra perfetti, synth spaziali e momenti di leggerezza offre quasi un distacco dalla realtà. Ovviamente ho preso come esempio quella che preferisco di più, ma ciò non toglie che le altre siano allo stesso modo entusiasmanti, solamente che grazie ai  suoi particolari arpeggi e synth questa traccia è diventata ormai un ascolto di routine nella mia giornata. Per questi motivi, senza indugi mi permetto di dire che questo è il miglior disco di questo 2013 a mio avviso (almeno per ora) e che ascoltare questo capolavoro non potrà che esservi d'aiuto per comprendere meglio il concetto di "musica". So che questa non è una recensione che vi aspettereste di vedere su un sito come questo, dato che questo disco non ha nulla a che fare col metal, però finito il primo ascolto di questo ep ho pensato:"Devo recensirlo". Ed eccovi serviti.

-Andrea Facchinello




martedì 5 novembre 2013

Rivers of Nihil - The Conscious Seed of Light






Year: 2013
Genre: Technical Death Metal
Label: Metal Blade Records
Sounds Like: Decrepit Birth, Spawn of Possession
Sentence: Djent meets Tech Death Metal (7)

Dopo due ep un po' anonimi, fanno l'album e la Metal Blade Records li ingaggia. Ecco come si potrebbe riassumere la storia dei Rivers of Nihil nella maniera più breve possibile. Ebbene sì, ecco tornare il quintetto americano, con questo full pronto a spazzare via le foglie dagli alberi, senza che ci pensi l'autunno; ma un basso super droppato, due 7 corde, una più che sufficiente tecnica e un po' di tamarrosità, basteranno?

C'è da dire che l'originalità non spicca in questo "The Conscious Seed of the Light", dato che abbiamo dalle prime tracce dei rimandi a titani del technical come Spawn of Possession, Decrepith Birth, Beyond Creation e robe simili, per cui se  volevate (come il sottoscritto) trovare qualcosa di nuovo, o almeno insolito in questo disco, beh ve lo potete scordare fin da subito; salvo gli accenni di djent che però sono un po' poco per identificare e segnare un album. Questo però non significa affatto che è un pessimo disco anzi, gode di un'ottima produzione, di un'eccellente qualità e di alcune tracce veramente ben fatte. Ed inizierei appunto citandole, dato che le altre non mi hanno fatto ne caldo ne freddo, ma soprattutto mi hanno quasi annoiato, dato che mi sembrava di ascoltare i gruppi prima citati. Sicuramente la fighissima intro "Terrestria I: Thaw" fatta in tremolo picking, mentre si crea un'atmosfera veramente cupa, quasi da blackened death metal: uno splendore, che verso la fine apre alla miglior, senza dubbio, traccia del disco. E non a caso è proprio quella che avevano rilasciato prima dell'uscita dell'album; ma guarda tu il fato. Ovviamente stiamo parlando di "Rain Eater", una traccia "completa" sotto tutti i punti di vista, non tanto classificabile come technical death metal, ma più come blackened death metal, dato che sono presenti molti riff lenti a spezzare, note alte sempre plettrate dal tremolo picking e non mancano neanche accenni di djent e rimandi agli Immolation quasi alla fine: che dire, la traccia perfetta. E a questo punto non puoi che dire "Cazzo che disco!", "Se continua su questa scia lo reputo il miglior album tech dell'anno" e cose così. Ma dopo la terza traccia, "Birth of the Omnisavior", già si spegne almeno il 50% di entusiasmo che ti circondava fino a pochi minuti fa. Ma va beh, una traccia che non è a livelli della precedente è più che lecita, anche se tutto sommato non è male; segue in parte la precedente per alcuni aspetti, ma differenzia per un aumento e una durata di velocità portato a livelli davvero estremi. La successiva "Soil & Seed" è viziata forse, da una durata troppo eccessiva; nel senso che se mi vuoi fare una canzone che duri più della straordinaria "Rain Eater", mi devi fare una canzone con i contro cazzi come è essa o addirittura una migliore (ok chiedo troppo). Ma nel complesso mi sono piaciute le atmosfere blackened e la voce di Jake che diventa quasi come quella di Nergal, ma come ripeto, durata eccessiva. In "Central Antheneum" c'è uno stacco arrivati a metà, dove possiamo riassaporare le atmosfere buie e cupe della intro, seppur per poco tempo. E già a questo punto il tuo parere, da quello precedente, passa a "Beh forse prima ero troppo eccitato, devo tornare con i piedi per terra". Le seguenti 3 tracce, "Mechanical Trees", "Place of Serpents" e "Human Adaptation" sono senza dubbio le più incazzate dell'album. E dopo averle ascoltate, mi sono incazzato e non poco. Ma dico io, perché cazzo dovete buttarvi nella massa andando a 3000 di metronomo dopo aver sfornato brani dalle atmosfere blackened veramente ben fatte? Risposta: perché alla fine è un disco technical death metal e la velocità è tutto. Che lo vogliate o no, se continuavano il disco da "Central Antheneum" in poi facendo tutte tracce su quella linea, il disco non era più tech death, ma diventava blackened. Perché lo sto dicendo? Perché sarebbe stato molto meglio, dato che quelle tracce sembra non c'entrino un cazzo con il resto! Ma non importa, andiamo avanti. Anche la successiva "A Fertile Altar" è una traccia molto veloce, anche se alla fine ha dei rallentamenti che aprono a uno dei riff tech più ganzi di tutto l'album, motivo per cui non l'ho messa insieme alle altre 3. E a chiudere questo "discutibile" album, abbiamo "Airless", e il titolo dice tutto su come mi sento in questo momento...tornando a noi, una buonissima traccia per chiudere, con cambi di tempo veramente inaspettati e un'atmosfera a chiudere veramente intensa. Mi viene quasi da pensare che quei 3 brani, siano fillers o fatti tanto per fare...va beh forse esagero. Fatto sta, che se il voto è basso dipende in gran parte dai quei 3 pezzi, e da una mancanza di originalità e uno scopiazzamento eccessivo a tratti. Un disco moderno che racchiude molto di questi anni, ma molto che non hanno fatto i Rivers of Nihil, ma i titani dei generi che compaiono in questo "The Conscious Seed of Light".

-Marco





venerdì 1 novembre 2013

Children of Bodom - Halo of Blood






Year: 2013
Genre: Melodic Death Metal
Label: Nuclear Blast
Sounds like: Children Of Bodom (old), Scar Simmetry, Norther
Sentence: Holy shit (7,5)

E quando venne annunciato dalla band che quest'album sarebbe stato sulla falsa riga dei primi tre successi non ho potuto che gioire nel sentire la notizia. Sì, adoro i Children Of Bodom, sebbene la loro immagine "TrAsGre !!1!1" li faccia apparire come band da fighette attempate. "Halo of Blood" è una perla insperata, un ritorno alle influenze black del debutto "Something Wild" e dei due album seguenti. Si parte con "Waste of Skin", traccia con un riff da brividi e melodie allucinanti e, se possibile, con un ritornello ancora più esaltante. Un passaggio di batteria introduce "Halo of Blood", velocissima e furiosa con un riff iniziale in purissimo stile black. La bellissima "Scream for Silence" è un altra carta vincente del disco, con un Laiho che sembra aver recuperato la voce. Sebbene "Transference" sia il singolo di traino del disco, è una delle meno belle del disco (sebbene sia migliore di tutte le canzoni dei due album precedenti) e ha un ritornello abbastanza indigesto, con una linea melodica che non centra nulla con il riff precedente. Tutto sommato, la leggera amarezza è completamente rimossa da un pezzone come "Bodom Blue Moon", fulminante e potentissimo, ottimo per rientrare in pieno nel disco. Anche "Your Days Are Numbered" è un grande pezzo, pieno di riff assassini e potenti. E quando pensavo di essere pronto per un altro pezzo velocissimo, ecco "Dead Man's Hand on You"; nessuna parola per descriverla, un low tempo e un riff arpeggiato semplice ma efficace. Tutta la traccia è pervasa da un'atmosfera molto depressiva, strana per i Bodom, da notare anche la cantilenante voce di Laiho, che si fonde perfettamente con le note della canzone. Il riposo però dura poco, ecco "Damaged Beyond Repair"altra traccia potente e molto ritmata. Poi il capolavoro "All Twisted", sebbene ad un primo ascolto non possa sembrare così spettacolare, è, per la mia modesta opinione una delle migliori tracce mai scritte dai bimbi. Un riff tagliente e un ritornello spettacolare ne fanno un must per chiunque voglia avvicinarsi alla band. La traccia che, invece, ho apprezzato meno è la conclusiva "One Bottle and A Knee Deep", canzone che non è riuscita a trasmettermi nulla di particolare. Nell'edizione giapponese sono presenti due cover di brani lontani dallo stile dei Bodom, come di consueto (io però ho ascoltato solo l'edizione normale). Questo era Halo of Blood dei Children Of Bodom, il migliore dai tempi di "Are You Dead Yet ?". SPERIAMO e ripeto SPERIAMO, che Alexi Laiho la pianti di fare il deficiente e che continui sulla linea di quest'ultimo disco.

-Niccolò Silvi